Сronologia 4

testo tradotto in italiano da Claudio dell'Orda

This Italian translation of the fragments of the 4-st volume by Anatoly Fomenko was done by Claudio dell'Orda from the English edition: 
A. T. Fomenko, T. N. Fomenko, V. V. Kalashnikov, G. V. Nosovskiy
History: " Fiction or Science?"
THE CHRONOLOGY OF RUSSIAN HISTORY.
NEW CHRONOLOGY AND CONCEPTION OF BRITISH HISTORY. ENGLAND AND RUSSIA (OR THE HORDE).
THE CHRONOLOGY AND GENERAL CONCEPTION OF ROMAN AND BYZANTINE HISTORY

Capitolo 14: Informazioni varie.

 

8. La geografia secondo una mappa della Grande Tartaria datata al 1670.

 

Nella fig. 14.52 si vede una mappa realizzata a Parigi nel 1670 e il cui titolo completo recita così: “La Grande Tartarie. Par le Sr. Sanson. A Paris. Chez l'Auteur aux Galleries du Louvre Avec Privilege pour Vingt Angs. 1670.”

Questa carta è davvero molto interessante e corrisponde bene alla nostra ricostruzione. Cominciamo osservando che la carta in questione è quella della Grande Tartaria, o Tartaria Mongola (ricordiamo che la parola “Mongolo” si traduce con “Grande”). Secondo la carta, la Grande Tartaria non include l'Impero Russo nel senso moderno del termine, ma invece comprende sia la Cina che l'India.

La carta, in modo piuttosto spettacolare, ci offre diverse versioni dello stesso nome geografico. Per esempio il nome Moal, Mongal e Magog sono sinonimi, secondo la carta. Perciò, abbiamo l’Ieka-Moal, Iagog e Gog, i quali tutti significano la stessa cosa. Effettivamente, il riflesso delle nazioni bibliche di Gog e Magog, identificate con i Goti e i Mongoli, ossia i Cosacchi, è sopravvissuto nella storia Scaligeriana fino ad oggi, vedi Cronologia5. Vediamo l’India chiamata “Mogol Inde”, ovvero la parola “Mongolo” con la parola che in russo antico significa “lontano”. In altre parole il nome si può tradurre come “Mongoli Lontani” o “I Grandi Lontani”.


Figura 14.52.
Una mappa della Grande Tartaria realizzata a Parigi nel presunto anno 1670. La Grande Tartarie.
Par le Sr. Sanson. A Paris. Chez l'Auteur aux Galleries du Louvre Avec Privilege pour Vingt Ans. 1670.

In Siberia vediamo le montagne “Alchai”, chiamate anche “Montagne Belghe”. Un po’ più a Est troviamo il nome Germa, ossia Germania. Ciò che vediamo può riflettere un interessante processo storico. Dopo la frammentazione del Grande Impero “Mongolo”, che si estendeva su gran parte dell’Eurasia, Africa e America, molti degli antichi nomi “mongoli” cominciarono a viaggiare dall’Occidente verso l’Oriente. Questo processo è stato catturato da numerose carte appena compilate in Europa Occidentale. Si stabilì che la precedente Grande Tartaria si espandeva nei territori a Est del Volga e niente più. Perciò, la precedente geografia del Grande Impero “Mongolo” venne compressa; gli scrivani e i cartografi dell’Europa Occidentale furono messi al lavoro per cancellare tutta la terminologia dell’Orda dal loro proprio territorio. Come risultato, alcuni dei nomi geografici imperiali “mongoli” viaggiarono verso Est, oltre gli Urali. Infatti, la carta del 1670 che stiano studiando, contiene i nomi europei di Germa(nia) e Belgio. Naturalmente, in seguito furono corrette e oggi noi non vediamo alcuna traccia della Germania o del Belgio in Siberia. Tutto ciò che rimane sono Mongolia e India, molto ridotte in grandezza, poiché dal XIV-XVI secolo i nomi Mongolia e India sono stati usati dagli occidentali per riferirsi all’intera Orda o Russia, vedi Cronologia5 per maggiori dettagli sull’uso del nome India per la Russia nel Medio Evo.

Torniamo alla carta del 1670 nella fig. 14.52. Vediamo la città di Bulgar in Moscovia, proprio vicino a Kazan sul Fiume Volga. Il fiume Don è chiamato Tana. Un’altra città il cui nome suona molto interessante è Wasilgorod, che si trova sul Fiume Volga, tra Nizhnij Novgorod e Kazan: il nome si traduce come “Città di Basilio” o “Città dello Zar”. Oggi questa città non esiste. Potrebbe essere il nome Cheboksary del XVII secolo? La radice SAR nel nome della città è realmente una delle numerose versioni della parola Zar. Il moderno Fiume Lena in Siberia è chiamato “Fiume Tartar”, dove l’intera Siberia Nord-Orientale porta il nome “Su-Moal ats Tartar”.

Perciò, possiamo vedere che nel XVII secolo gli europei occidentali usavano ancora i nomi dell’Orda per molti luoghi sul territorio russo, quali furono successivamente cancellati dai cartografi e dagli storici di Scaligero e dei Romanov.

 

 

9. La famosa collezione di libri e di cronache di A. I. Soulakadzev.

Alexander Ivanovich Soulakadzev visse nel 1771-1832 ([407], pagg. 155-156) e fu un famoso collezionista di libri antichi e cronache, inclusi quelli che riguardano la storia della Russia. Negli anni ha collezionato un'enorme quantità di libri e cronache che ammontano a diverse migliaia. Alla fine della sua vita pubblicò un catalogo di libri e cronache in suo possesso. C'erano molti dibattiti infocati sulle sue attività, nel XVIII-XIX secolo. Gli storici moderni lo definiscono un falsario, “uno dei più noti falsificatori russi di opere storiche, le cui attività si sono riflesse in dozzine di opere speciali… si è specializzato nella propagazione su larga scala di testi contraffatti… È incredibile con che sfacciataggine abbia realizzato e propagandato i suoi falsi. L'ammontare e l'ambito dei generi delle sue creazioni, è anch'esso impressionante" ([407], pag. 155).

L'infuocato interesse dell'intellighenzia russa del XIX secolo, per i materiali storici di Soulakadzev, si combinava con le vivaci accuse alla tendenza di Soulakadzev di “collezionare antiche cronache e sfigurarle con le sue correzioni e note, per farle sembrare più antiche”, secondo l'opinione di A. K. Vostokov del 1850 (citazione da [407], pag. 160). P. M. Stroyev scrisse quanto segue nel 1832: “Quando lui [Soulakadzev - Aut.] ... era ancora vivo, ho studiato i suoi preziosi tesori di letteratura che il Conte Tolstoj intendeva acquistare a quel tempo…. Le correzioni piuttosto rozze che infestano praticamente ogni cronaca, mi perseguitano ancora oggi” (citazione da [407], pagg. 160-161).

Tuttavia la situazione appare essere molto più sfaccettata di come può sembrare oggi. Gli stessi storici ammettono quanto segue: "Questo giudizio duro e paternalisticamente scettico della collezione di Soulakadzev, si è dimostrato ingiusto in molti casi. Durante tutta la sua vita ha cercato davvero di collezionare una quantità di preziosi stampati e manoscritti. La collezione si basava ... sulla libreria e la collezione di cronache di suo padre e suo nonno [si suppone che Soulakadzev sia un discendente del principe Georgiano G. M. Soulakidze - Aut.] Questa collezione fu arricchita da oggetti ricevuti in regalo e persino, probabilmente, sottratti a qualche collezione ecclesiastica, laica o a qualche libreria. . . Un certo numero di documenti unici, finì misteriosamente a far parte di questa collezione, in particolare la lista delle cronache che furono spedite al Sinodo alla fine del XVIII secolo, per ordine di Caterina la Grande (erano negli archivi del Sinodo fino all'inizio del XIX secolo). Oggi sappiamo di una cronaca numerata col numero 4967" ([407], pag. 161).

Questo numero dimostra che la collezione di Soulakadzev includeva come minimo 4967 libri o cronache! “Su una delle cronache, Soulakadzev ha scritto di essere in possesso di ‘oltre duemila cronache di differente tipo, oltre a quelle scritte su pergamena’. È difficile verificare la veridicità di questa affermazione. Oggi conosciamo il luogo in cui sono conservate più di 100 cronache che erano appartenute a Soulakadzev” ([407], pag. 161).

È stata la collezione di Soulakadzev che ci diede fonti famose come “La storia del Regno di Kazan’ in una copia del XVII secolo, la Palea Cronografica del XVI secolo, la Cronaca di A. Palitsyn [una delle fonti primarie della storia del Periodo dei Torbidi di inizio XVII secolo - Aut.], l’edizione del Cartografo Meridionale, e un frammento della Cronaca di Nicon in una copia del XVII secolo” ([407], pag. 162). Queste fonti non sono considerate contraffatte dagli storici moderni. Al contrario, vengono studiate diligentemente e utilizzate come basi per dissertazioni e monografie scientifiche. Perciò, la collezione di Soulakadzev è divisa in due parti: le “fonti corrette” e le “fonti sbagliate”, o presunti falsi. Sarebbe interessante conoscere le basi di queste affermazioni.

Diciamo subito che non intendiamo fare da giudici sulla questione, se Soulakadzev sia stato un falsario oppure no. Non abbiamo avuto la possibilità di studiare la storia della collezione in dettaglio, e non abbiamo avuto la possibilità di aver in mano i libri o le cronache da lui acquistate. Inoltre, molte di loro si presume siano scomparse o distrutte deliberatamente, come diremo più avanti. Comunque sia, la nostra analisi della storia russa fa si che l’intera immagine della collezione di Soulakadzev, che serve come pomo della discordia tra gli storici e l’intellighenzia, sia molto più chiara.

Prendiamo in considerazione le argomentazioni degli storici, i quali affermano che gran parte della collezione di Soulakadzev è “contraffatta” e “imbastardisce la storia russa”. Abbiamo appreso che questa “passione” di Soulakadzev aveva radici nell’atmosfera sociale e scientifica delle prime decadi del XIX secolo. Il secolo iniziava con molte grandi scoperte fatte nel campo della letteratura e delle ricerche scientifiche slave e russe: nel 1800 avvenne la prima pubblicazione di ‘Slovo o polku Igoreve’ ... I periodici pubblicavano sensazionali rivelazioni sulla libreria di Anna Yaroslavna, la runica “Cronaca di Drevliane”, un codice slavo del VIII secolo d.c. scoperto in Italia e così via” ([407], pagg. 163-164).

Nel 1807 Soulakadzev “disse a Derzhavin delle ‘Rune di Novgorod’ che aveva avuto a sua disposizione” ([407], pag. 164). Poco dopo, Soulakadzev acquistò “La Canzone degli Slavi di Boyan” ossia “l'Inno a Boyan”. Questo testo si presume oggi, sia uno dei falsi di Soulakadzev. Lo storico V. P. Kozlov scrive che “il presente reperto di testo ‘runico’ mostra in modo ovvio che questo agglomerato di pseudo-anacronismi derivati dalle radici delle parole slave, molto probabilmente non ha alcun significato” (ibid).

Kozlov continua citando quello che probabilmente considera il “più assurdo frammento” de “l'Inno a Boyan”, con a fianco la traduzione di Soulakadzev. Tuttavia, noi non ci troviamo nulla di evidentemente assurdo. Anzi, questo testo ci sembra assomigliare ai testi Etruschi che prendiamo in esame in Cronologia5. Il loro linguaggio, che sembra essere di origine slava, ha un certo numero di idiosincrasie che non sono caratteristiche dell’antico linguaggio russo a cui siamo abituati. Ci sono perciò questi autentici testi esistenti, il cui linguaggio ricorda quello de “l'Inno a Boyan”. Questo naturalmente non implica che “l'Inno” sia autentico; tuttavia, per prima cosa si dovrebbe dimostrare che è un falso. Questa prova, per esempio, non esiste da nessuna parte in [407].

Segnaliamo una certa peculiarità che riguarda il sistema di accuse contro Soulakadzev. Per esempio, il libro di V. P. Kozlov intitolato “I Misteri della Falsificazione. Manuale per Professori, Universitari e Studenti” ([407]) dedica un intero capitolo a Soulakadzev, che inizia con la frase “Il Khlestakov dell’archeologia Russa”. Nonostante ciò, non abbiamo trovato una singola chiara accusa di falsificazione, basata su reali informazioni in nessuna delle trenta pagine occupate dal capitolo. Non c’è un singolo caso provato di truffa; tutte le accuse sono basate su vaghe pontificazioni relative ai presunti vizi di Soulakadzev. Il suo interesse nell’arte teatrale, viene definito “fanatico” da Kozlov ([407], pag. 156), il quale suggerisce anche che Soulakadzev avrebbe inventato le sue origini dai principi Georgiani, senza preoccuparsi di darne alcun conto ([407], pag. 155). Gli storici sono particolarmente arrabbiati relativamente al mai pubblicato lavoro teatrale di Soulakadzev, intitolato “Ioann, il Condottiero Moscovita”, i cui personaggi si dice “abitino... in un mondo di fantasia” ([407], pag. 158). Kozlov cita anche un’intera lista dei vizi di Soulakadzev: “curiosità non sistematica, propensione romantica alle fantasticherie, accompagnata da un approccio dilettantesco, pie illusioni e la soluzione dei problemi con l’aiuto di una testarda sicurezza di sé e osservazioni non supportate da reale conoscenza” ([407], pag. 155). Si va avanti così, senza traccia di prova o di un esempio.

Perché questo? Cosa potrebbe spiegare il vetriolo che ovviamente tradisce un odio innato per Soulakadzev da parte di Kozlov?

È piuttosto difficile trovare una singola risposta a questa domanda. Pensiamo che la ragione sia formulata nel seguente passaggio. Evidentemente, Soulakadzev “nella sua ispirazione patriottica… dà per filo e per segno una rappresentazione della storia slava come di una catena di campagne vittoriose degli Slavi… Cercava chiaramente le prove che rendessero gli Slavi diretti eredi dell’Antica Roma, che era stata la nazione più evoluta d’Europa” ([407], pag. 168). L’analisi che facciamo in Cronologia5 rende il punto di vista di Soulakadzev per la maggior parte giusto, almeno la teoria circa il Grande Impero Slavo “Mongolico”, ossia l'Orda, come effettivo successore del regno di Bisanzio sorto nel XI-XIII secolo. A parte questo, in Cronologia7 dimostriamo che l’impero dell’Orda del XIV-XVI secolo è stato riflesso nella “antica” storia come “l'antico” Impero Romano. Gli storici romanoviani avevano già introdotto una nuova cronologia della storia antica, largamente importata dall’ Europa Occidentale, dove gli Slavi erano considerati la nazione più arretrata che esiste. I primi documenti che contenevano la storia del Grande Impero “Mongolo”, erano stati distrutti nei primi duecento anni del regno dei Romanov in Russia. Le prove sopravvissute ammontavano a una collezione di cianfrusaglie, riferimenti indiretti e documenti individuali. Ma persino queste venivano viste come una minaccia, dalle sentinelle ufficiali della storia romanoviana. Soulakadzev deve aver raccolto una collezione di simili documenti individuali sopravvissuti. Poiché non era uno storico professionista, non possedeva le motivazioni, né per confermare, né per disapprovare la versione romanoviana della storia. Sembrava guidato da un sincero desiderio di capire la storia dell’antica Russia e questo era senz’altro la sua maggior colpa e la ragione per le accuse di insufficiente professionalità che venivano da parte degli storici romanoviani (e perciò anche quelli odierni). Dal loro punto di vista, un professionista è uno che lavora per supportare la versione della storia dei Romanov e di Scaligero. Chiunque si opponga a questo deve essere distrutto. La distruzione consiste nell’appiccicare etichette, quella di “malvagio truffatore” nel caso di Soulakadzev. Il nome dell’eretico collezionista può essere quindi demonizzato in ogni modo, può essere dichiarato un fanatico, un semplice amatore o un fabbricatore di miti. La scuola e i testi scolastici possono rovinare la sua reputazione post-mortem, riferendosi al collezionista, con naturalezza, come a un grande truffatore. Gli studenti difficilmente potranno avere un’altra opinione.

Torniamo a “l'Inno a Boyan”, che si suppone Soulakadzev abbia scritto da solo. I commentatori lasciano trapelare il loro ribrezzo e sdegno su questo “lavoro pseudo-letterario”; dall’altra parte, gli stessi storici ammettono che l’Inno “inizialmente fece un profonda impressione sui contemporanei di Soulakadzev… si può chiaramente vedere dalla traduzione dell’Inno da parte di Derzhavin, come dal fatto che... [l’Inno a Boyan’ - Aut.] fu usato come fonte storica attendibile per la biografia di Boyan pubblicata dalla 'Syn Otechestva’ (‘Figlio della Terra dei Padri’) pubblicata nel 1821” ([407], pag. 168).

Perciò, nel XIX secolo la società Russa, come gli scrittori, che erano persone di cultura e conoscitori dell’antica letteratura russa, non avevano alcuna rimostranza da fare su “l'Inno a Boyan”. Invece, appena poco dopo, gli storici professionisti del XIX secolo “adottarono un atteggiamento di dubbio e perfino di aperto scetticismo verso ‘Inno a Boyan’” ([407], pag. 168). La “spiegazione” offerta dagli storici eruditi è la seguente: “Alcune parti… ne menavano vanto… trovando quello che loro ritenevano l’antico alfabeto runico degli antichi Slavi… usato per scrivere l‘Inno a Boyan... Queste rune assomigliano molto da vicino... alle lettere dell’alfabeto slavo, e perciò si arrivava alla conclusione che l’alfabeto runico degli Slavi sia esistito prima della Cristianità e che, quando Cirillo e Metodio inventarono l’alfabeto russo moderno, utilizzarono le rune slave esistenti, aggiungendovi alcune lettere greche e di altra origine!” ([407], pagg. 168-169).

Come poteva essere tollerata, da parte degli storici romanoviani e scaligeriani, la teoria eretica (che invece avrebbe potuto essere vera) che l’alfabeto cirillico fosse una leggera trasformazione delle rune slave, con l’aggiunta di diversi simboli dagli alfabeti occidentali? Dopo tutto, questo è proprio l’alfabeto che troviamo in tutta l’Europa Occidentale (anche sotto il nome di “alfabeto etrusco”). Nel momento in cui comprendiamo gli eventi reali dietro questa cortina di fumo (vedi Cronologia5), diventa ovvio che i commentatori comincino a sentirsi a disagio. È un violento urto all’intero edificio della cronologia scaligeriana. La società russa del XIX secolo doveva possedere ancora una lontana memoria della propria storia, ossia quella del Grande Impero “Mongolo”. Comunque sia, gli storici romanoviani dovevano essere ben consapevoli di cosa sarebbe successo, visto il loro implacabile atteggiamento. La reazione di questi venerabili dottori, a simili fenomeni, era sempre rapida e precisa, dimostrando una buona educazione e assoluta spietatezza. Tutti i testi runici scritti dagli antichi Slavi furono dichiarati falsi; Soulakadzev guadagnò la reputazione di truffatore, con allegati vizi di tutti i tipi per screditare la sua collezione, che invece conteneva probabilmente una grossa quantità di oggetti interessanti.

Possiamo dedurre questo da un singolo catalogo di libri e cronache che erano parte della collezione fatta dallo stesso Soulakadzev. Il nome del catalogo è piuttosto notevole: “Un inventario, o un catalogo di libri antichi, scritti a mano e stampati, molti dei quali anatemizzati dai concili ecclesiastici, e altri bruciati, anche se riguardavano solo eventi storici; molti di loro, scritti su pergamena, altri su cuoio, tavolette di faggio, betulla, stoffe etc.” (citato in [407], pag. 176). Qui si trova una delle più interessanti sezioni che questo inventario conteneva: “‘Libri banditi, vietati alla lettura e al possesso’, ‘Libri chiamati eretici’, ‘Letteratura apostata’” (ibid).

Gli storici ammettono che “‘L’Inventario’ conteneva diversi lavori reali di letteratura russa e slava i cui originali non sono mai stati visti: gli scienziati erano ansiosi di individuarli” ([4-7], pagg. 176 - 177). Da cosa dipendeva quest’ansia? Alcuni degli scienziati avrebbero voluto leggere e studiare i libri in questione, mentre altri erano dell’opinione di leggerli e distruggerli. Bisogna ammettere che, tristemente, gli ultimi abbiano avuto la meglio, poiché il destino dell’enorme e senza prezzo collezione di Soulakadzev è stato tragico. Astutamente distrutta.

Secondo V. R Kozlov, “la collezione di manoscritti e libri di Soulakadzev... cessò di esistere come entità singola, dopo la morte del suo collezionista. La gran parte è andata perduta” ([407], pagg. 161162). Gli storici dicono che è “colpa” di Soulakadzev. Evidentemente, la sua colpa è di aver fatto credere alla moglie che la collezione avesse un grande valore. Perciò la moglie “ingannata dal marito” non volle dividere la collezione in più parti o in libri separati, e intendeva inizialmente venderla a un singolo compratore. Risulta che i possibili acquirenti di Mosca e S. Pietroburgo, che erano inizialmente molto interessati all’acquisto della collezione di Soulakadzev, incominciarono a boicottare la vedova” ([407], pag. 162).

“Il biografo Y. F. Berezin-Shiryaev riporta... il triste destino si compì per... la maggior parte dei manoscritti e libri. Nel dicembre del 1870 entrai in un negozio di libri nella Corte di Apraksin a S. Pietroburgo, e vidi ‘una moltitudine di libri legati in enormi fasci poggiati per terra. Quasi tutti i libri avevano antiche rilegature in cuoio, e alcuni anche in cuoio di pecora bianca... Scoprii il giorno successivo che i libri che avevo visto nel negozio di Shapkin, un tempo erano appartenuti al famoso bibliofilo Soulakadzev, ed erano stati tenuti così accatastati nell’attico di qualcuno. Shapkin li aveva acquistati per poco’” ([407], pag. 162). Berezin-Shiryaev comprarono “tutti i libri stranieri che erano a disposizione di Shapkin, oltre 100 volumi, come pure un cero numero di libri in russo” ( [407] , pag. 162). Il grande valore della collezione di Soulakadzev è confermato eloquentemente dal fatto che tra i libri sparpagliati sul pavimento del negozio di Shapkin, c’erano alcune edizioni della metà del XVI secolo.

La seguente circostanza non può non attrarre la nostra attenzione. Il primo acquisto di libri fu fatto da P. Y. Aktov e A. N. Kasterin, famosi collezionisti di S. Pietroburgo. Si può pensare che abbiano acquistato i libri di maggior valore della collezione. Cosa scopriamo? Proprio questi libri non sono sopravvissuti ([407], pag. 162). Kasterin, per esempio, vendeva già i libri di Soulakadzev nel 1847. Aveva distrutto i “libri proibiti” e stava vendendo tutti gli altri che era stato costretto a comprare per la presunta avarizia della vedova di Soulakadzev e di cui non aveva davvero bisogno. È curioso che i libri di Soulakadzev comprati da Shapkin e più tardi da Berezin-Shiryaev e Dourov, siano rimasti intatti e integri ([407], pag. 173). La ragione evidente di questo è che Berezin-Shiryaev e Dourov avevano comprato i libri dopo che la collezione aveva già passato la “purga della censura”; tutte le fonti davvero pericolose erano già state distrutte.

Ad ogni modo, lo stesso Soulakadzev era incline ad accusare alcune delle fonti degli storici scaligeriani e romanoviani, come contraffatte. Per esempio scrisse che credeva che “Le antiche canzoni di Kirsha Danilov fossero state scritte recentemente, nel XVII secolo. Non c’è nulla di antico nel loro stile o nella storia; anche i nomi sono parzialmente di fantasia e pensati in modo da assomigliare vagamente a quelli antichi” ([407], pag. 173). Gli storici non possono trattenersi dal commentare “la faccia tosta dell’autore [Soulakadzev - Aut.] e i suoi sorprendenti giudizi da moralista” ([407], pag. 173).

Gli storici sono molto irritati dalla ricerca di Soulakadzev sulla storia del monastero di Valaam, il cosiddetto “Opoved” (il nome si può tradurre come “resoconto” o “introduzione”). Soulakadzev offre una sinopsi di tutte le prove che riguardano il viaggio di Andrea l’Apostolo di Gerusalemme a Valaam. Vediamo la stessa situazione del “l'Inno a Boyan”. Inizialmente, la società russa trattò la ricerca di Soulakadzev come un genuino lavoro storico. Infatti, “le quattro prime edizioni della ‘Descrizione del Monastero di Valaam? (iniziando dal 1864 fino al 1904) ... utilizzarono l’Opoved come un lavoro genuino” ([407], pag. 175). Tuttavia, oggi gli storici non smettono di ripetere che le fonti di Soulakadzev utilizzate nell’Opoved erano “contraffatte”. Kozlov appare piuttosto sicuro di sé nel seguente passaggio, pur non citando alcuna prova: “Soulakadzev usa fonti contraffatte per provare nel suo lavoro che Valaam fosse abitata da Slavi da tempo immemorabile e non dai Careliani e dai Finnici. Si presume che gli Slavi qui abbiano fondato uno stato, dopo Novgorod, che avrebbe anche mantenuto contatti con l’imperatore Romano Caracalla” ([407], pag. 175). Anche solo questa affermazione, prova che Soulakadzev non aveva utilizzato alcuna fonte falsa. Secondo Cronologia5, Valaam era davvero appartenuta al Novgorod la Grande, ossia Yaroslavl, che manteneva stretti contatti con Zar Grad, ossia la Nuova Roma sul Bosforo. In un certo numero di fonti, ci si riferiva alla vera Novgorod la Grande, come a Roma o la Nuova Roma, vedi Cronologia5. Andrea l’Apostolo deve aver viaggiato da queste parti.

Per cui, la nostra ricostruzione rimette parecchie cose al loro posto e mette sotto un’altra luce l’attività di Soulakadzev, e di coloro che ancora oggi fanno di tutto per far scomparire tutte le tracce della sua attività.

 

 

10. Il nome del vincitore della battaglia del 1241 tra i Tartari e i Cechi.

 

Secondo la storia di Scaligero, nel 1241 le truppe “Mongole” (ossia le truppe del Grande Impero) invasero l’Europa Occidentale ([770], pag. 127). Tuttavia, si presume che, dopo aver conquistato l’Ungheria e la Polonia, non siano riuscite a farcela con la Germania e siano state sconfitte dall’esercito del re Ceco. Lo schema che si presenta è quello del conflitto tra il “giusto” Occidente e i “malvagi Mongoli” che avevano subito una meritata sconfitta ed erano stati costretti a tornarsene in Oriente. La nostra ricostruzione fa apparire la storia di questa conquista in modo sostanzialmente differente, come una serie di guerre civili che terminò con la propagazione del potere imperiale sui vasti territori dell'Eurasia e dell'Africa, in particolare la Germania e il Regno Ceco. I “Tartari e Mongoli” non lasciarono questi territori. È perciò utile sapere di più sulla parte vittoriosa, quella che ha vinto contro il Regno Ceco, che si presume segni la fine della Grande Conquista “Mongola” dell’Europa dell’Ovest. Come già sappiamo, le truppe imperiali o “Mongole” marciavano verso Ovest condotte dallo Zar o Khan conosciuto come Batu Khan (ossia Batya), Yaroslav, Ivan Kalita, o Ivan il Califfo, vedi sopra.

Cosa abbiamo scoperto? Gli antichi documenti hanno preservato il nome del vittorioso: si scopre che questo nome è Yaroslav ([770], pag. 127). Ovviamente, gli storici scaligeriani dicono che non era “Mongolo” ma piuttosto un “condottiero Ceco”. Oggi, conoscendo le distorsioni della versione consensuale della storia del mondo, si può anche immaginare che questo personaggio fosse un “Mongolo”, il grande Batu-Khan, conosciuto anche come il Gran Principe Yaroslav. Comunque, è precisamente come dovrebbe essere secondo la nostra ricostruzione, poiché Yaroslav è un altro nome dello Zar Batu o Batu-Khan, anche conosciuto come il Califfo Ivan. Era un condottiero ceco, ma i Cechi facevano parte dell’esercito imperiale “Mongolo”. In qualche modo, gli storici moderni sono nel giusto: Yaroslav era anche il sovrano dei Cechi.

Gli eventi sono così descritti da V. D. Sipovskiy, uno storico del XIX secolo: “Nella primavera del 1241, Batu-Khan attraversò i Monti Carpazi e sconfisse il re Ungherese e poi due altri principi Polacchi. I Tartari invasero quindi la Slesia, dove sconfissero le truppe del Duca di Slesia. La strada per la Germania era aperta; tuttavia, il regno fu salvato dal re Ceco. La prima sconfitta dei Tartari ebbe luogo durante l’assedio di Olmutz; furono sconfitti da Yaroslav di Sternberg, il comandante militare dei Cechi” ([770], pag. 127).

Ovviamente, questo passaggio è semplicemente la versione degli eventi del XVII-XIX secolo, quando la vera storia del lontano XIII-XIV secolo era già stata dimenticata o falsificata. Tuttavia, il nome del vincitore ci ha fortunatamente raggiunto. È Yaroslav. Possiamo identificare lo stesso personaggio come Batu-Khan = Ivan Kalita, anche conosciuto come il Califfo Giovanni o il Prete Gianni. Potrebbe essere questa la ragione per cui i Cechi e i Tedeschi non si ricordano di essere stati conquistati dal Grande Impero “Mongolo”, e cioè che i loro antenati erano i “Mongoli” che marciavano verso Ovest sotto le bandiere Russe e dell’Orda?

In Cronologia5 citiamo una serie di prove del fatto che la popolazione germanica fosse precedentemente costituita per la maggior parte dall’etnia slava. Lo impariamo dai documenti storici sopravvissuti, così come dalle prove fornite dai contemporanei.

 

 

11. La posizione della Polonia visitata dal famoso viaggiatore Giovanni di Pian del Carpine.

 

11.1. Il libro “corretto” di Pian del Carpine che abbiamo oggi a nostra disposizione, contro il libro “errato” che è sparito misteriosamente.

In questa sezione commenteremo il famoso testo medievale di Giovanni di Pian del Carpine, a proposito del suo viaggio alla corte del Gran Khan Mongolo ([656]). Giovanni da Pian del Carpine andò in Mongolia come inviato papale; il suo libro si presume sia una delle fonti primarie originali di informazione sull’Impero Mongolo nel presunto XIII secolo. In realtà, secondo la Nuova Cronologia, il libro in questione si riferisce XIV-XV secolo.

Incominciamo con l’ultimo frammento del libro di Giovanni da Pian del Carpine, il quale appare davvero molto notevole: “Assicuriamo i nostri lettori che non stiamo alterando in alcun modo il nostro racconto e che non aggiungiamo alcun fatto alla storia… Comunque, poiché gli abitanti delle terre che visitammo nel viaggio, la Polonia, la Boemia, la Teutonia, la Leodia e la Campania, volevano leggere il libro il prima possibile, lo copiarono prima che noi avessimo avuto la possibilità di finire di scriverlo e controllarlo... Perciò non sorprendetevi poiché il libro attuale è redatto meglio [sic! - Aut.] ([656], pag. 85).

Cosa ci dice tutto questo? Prima di tutto, che a parte il testo di Giovanni da Pian del Carpine che abbiano a nostra disposizione, ci sono altre edizioni dello stesso libro contro le quali Giovanni da Pian del Carpine (in realtà, un editore del XVII secolo o di un'epoca ancora più tarda che scriveva a suo nome) mette in guardia i lettori. Gli “antichi” testi sono considerati “assolutamente sbagliati” e non degni dell’attenzione dei lettori. Per cui, dovremmo tutti leggere la versione veritiera.

Sarebbe veramente interessante leggere le versioni più antiche del testo di Giovanni da Pian del Carpine, quelle “errate”. Sfortunatamente, questo non succederà mai: il vero testo del libro di Giovanni da Pian del Carpine, deve essere stato distrutto senza lasciar tracce nel XVII secolo. Anche se per caso esistesse in qualche archivio, le possibilità di una sua pubblicazione sono praticamente nulle. Perché verrebbe immediatamente bollato come “sbagliato a priori”. Perché mai qualcuno dovrebbe pubblicare un testo “sbagliato” quando abbiamo già la copia “corretta”? In fondo non è lo stesso Giovanni da Pian del Carpine, che ci avvisa con decisione di non leggere le versioni “sbagliate”?

Siamo della seguente opinione. Quella che abbiamo a disposizione oggi, è un’edizione tarda del libro di Giovanni da Pian del Carpine, che probabilmente è stata redatta nel XVII o addirittura XVIII secolo, per far corrispondere il libro di Giovanni da Pian del Carpine alla versione scaligeriana della storia. Qualcuno deve aver riscritto il libro originario di Giovanni da Pian del Carpine, cancellando ogni singola traccia della storia reale del Grande Impero “Mongolo”, ossia la Russia (l’Orda). La scena europea degli eventi fu spostata nelle vicinanze del lontano Deserto del Gobi, a Sud del Lago Baikal. La realtà della vita di tutti i giorni in Russia fu trasferita nelle “distanti steppe mongole”. È anche possibile che l’editore, vissuto in un’epoca più recente, non capisse nemmeno molti dei riferimenti originali del testo.

 

11.2. Il viaggio di ritorno di Giovanni di Pian del Carpine.

Come abbiamo visto, Giovanni da Pian del Carpine viaggiò lungo i seguenti paesi, al ritorno dalla “Mongolia”: Polonia, Boemia, Teutonia, Leodia. A proposito, la Leodia medievale potrebbe essere identificata come “l'antica” Lidia, cioè la Lituania o l'Italia = Latinia? Dopo tutto Giovanni da Pian del Carpine raggiunge la Campania in Italia.

È impressionante (dal punto di vista scaligeriano) che Giovanni da Pian del Carpine non menzioni un singolo paese che stia all’Ovest della Polonia, come parte del suo itinerario di ritorno dalla capitale del Gran Khan, nella zona di Karakorum. Sembra che lasci Karakorum, che i moderni storici identificano da qualche parte nel Deserto del Gobi, mille miglia lontano dai confini della Polonia, e arrivi in Polonia immediatamente. Tuttavia, Giovanni da Pian del Carpine non dice una parola sulle numerose terre che dovrebbe aver attraversato dal Deserto del Gobi fino all’Europa Occidentale.

Potrebbe averle già citate nel suo viaggio di andata e quindi non ritenere utile citarle di nuovo? Non è così. Dopo aver raggiunto il Volga dall’Europa arriva immediatamente a Karakorum. Comunque, dove si trova realmente la città? Noi siamo dell’opinione che Giovanni da Pian del Carpine non arrivò nei deserti lontani, arrivò in Russia, ossia presso l’Orda, le cui regioni centrali iniziano immediatamente proprio dopo la Polonia. Le descrizioni di Giovanni da Pian del Carpine ci servono solo a tracciare il suo viaggio verso il Volga. Quindi, ci viene detto che il gruppo dei viaggiatori “viaggiò velocemente” e raggiunse subito la capitale del Gran Khan. Ci viene detto che Giovanni da Pian del Carpine andò ad est del Volga: tuttavia, non c’è nulla nel testo che lo suggerisca. Possiamo invece pensare che sia andato al Nord, risalendo il Volga e abbia raggiunto Yaroslav sul Volga, ossia Novgorod la Grande, vale a dire Karakorum, o semplicemente “tsarskiye khoromy”, “la residenza dello Zar”, che è l'origine del nome più probabile. Bisogna ricordare che nel deserto del Gobi non è mai stato trovato nulla che somigli a una città ([1078], Volume 1, pagg. 227-228). Gli archeologi non riescono nemmeno a trovare l’equivalente di una cittadina medievale di medie dimensioni.

 

11.3. La geografia della Mongolia secondo Giovanni di Pian del Carpine.

I nostri oppositori potrebbero notare che Giovanni da Pian del Carpine intendesse parlare solo della terra del khan. Vediamo la sezione intitolata “Sulla geografia della terra” (Mongolia) al principio del Capitolo 1. Giovanni da Pian del Carpine dice questo:

“La terra di cui parliamo si stende a Est, in quella parte dove si presume che l’Est si connetta con il Nord. A Est [dei “Mongoli” - Aut.] si trova la terra della Cina" ([656], pag. 31). Se adottassimo il punto di vista di Scaligero, Karakorum si troverebbe nel deserto del Gobi o da qualche parte in quella zona, la Cina si troverebbe al Sud e non a Est; questo contraddice le informazioni fornite da Giovanni da Pian del Carpine. Tuttavia, se la Residenza dello Zar, ovvero Karakorum, potesse essere identificata come Yaroslavl, ossia Novgorod la Grande, ogni cosa diventerebbe chiara. Avremmo la Siberia a Est di Yaroslavl, dopodiché la Scizia, ossia la Cina. La moderna Cina si trova ancora oltre, a Est. Comunque, in Cronologia5 dimostriamo che Cina o Scizia, era il nome medievale della Russia dell’Est, probabilmente le terre oltre il Volga e gli Urali.

Andiamo avanti. Secondo Giovanni da Pian del Carpine, “la terra dei Saraceni sta a Sud” ([656], pag. 31). Se presumessimo che Karakorum si trovasse nel deserto del Gobi, a Sud troveremmo la Cina, a cui non ci si può in nessun modo riferire come la “terra dei Saraceni”, che è il nome medievale del Medio Oriente, dell'Arabia e di parte dell’Africa, ma non dell'odierna Cina. Hanno fatto cilecca anche stavolta. Ma se affermassimo che Karakorum, ossia la Residenza dello Zar, si identifica con Yaroslavl, ovvero Novgorod la Grande, ogni cosa torna a posto. A Sud di Yaroslavl abbiamo il Mar Nero, l’Arabia, il Medio Oriente e le altre regioni reali del Grande Impero “Mongolo” del XIV-XVI secolo.

Più avanti, Giovanni da Pian del Carpine riporta che “le terre dei Naiman stanno a Ovest” ([656], pag. 31). Se accettassimo che Karakorum sia davvero situata da qualche parte nell’ambiente polveroso del deserto del Gobi, saremmo forzati a fare un’altra assunzione insieme ai moderni commentatori, e cioè identificare i Naiman come “una delle più grandi tribù nomadi Mongole che conducono una esistenza nomadica sui vasti territori… adiacenti alla Valle dell’Irtys Nero” ([656], pag. 381). Tuttavia, questa grande tribù Mongola scompare misteriosamente; oggi, su questo territorio non troviamo nulla di lontanamente rassomigliante alla “repubblica dei Naiman” da nessuna parte. Nessuno stato di questo genere ha lasciato alcuna traccia nella storia.

Tuttavia, identificando Karakorum, ossia la Residenza dello Zar, come Yaroslavl, ovvero Novgorod la Grande, riconosciamo immediatamente i Naiman come i famosi Normanni europei. Si presume che i Normanni fossero residenti in Scandinavia, Germania, Francia e nel sud Italia. Bisogna anche ricordare la Normandia in Francia. Come avrebbe potuto un viaggiatore medievale descrivere la posizione comparativa dei Normanni e della Russia, ossia l'Orda? I primi sarebbero stati residenti a Ovest rispetto ai secondi, che è precisamente ciò che ricaviamo da Giovanni da Pian del Carpine.

Cosa dice Giovanni da Pian del Carpine dei vicini settentrionali dei Mongoli? La terra dei Tartari è bagnata a Nord dall’oceano” ([656], pag. 31). C’è qualche oceano che bagna il Nord della Cina? Il solo concetto è insensato. A Nord della Mongolia troviamo le grandi distese della Siberia, l’Oceano Artico dista migliaia di miglia. Ancora una volta, i tentativi dei commentatori moderni di identificare la Mongolia di Giovanni da Pian del Carpine con l'odierna Mongolia, sono destinati all’insuccesso. Il racconto di Giovanni da Pian del Carpine comincia ad avere senso una volta che immaginiamo la Russia, ossia l'Orda, come la vera Mongolia che descriviamo. Infatti, la Russia è bagnata dall’Oceano Artico a Nord. Le terre russe sono state abitate fino all’Oceano Artico, e l’Orda ha sempre avuto dei porti là (Arkhangelsk, per esempio). Perciò, Giovanni da Pian del Carpine ha pieno diritto a dire che la Russia, ossia l'Orda, conosciuta all’Ovest come “la Terra dei Tartari”, sia bagnata a nord da un oceano.

 

11.4. Circa il nome dei Tartari.

Il libro di Giovanni da Pian del Carpine si intitolava originariamente “La Storia dei Mongoli, Conosciuti come Tartari, di Giovanni da Giovanni da Pian del Carpine, Arcivescovo di Antivari” ( [656] , pag. 30). Il titolo stesso suggerisce che la parola Tartari servisse come nome “esterno” dei “Mongoli”, ovvero i “Grandi”. Così erano conosciuti nell’Europa dell’Ovest. A volte, ci si riferiva a loro come i Turchi, che potrebbe derivare dal nome Tartari (dalla parola russa "torit", che si traduce in “tracciare un cammino”, “andare avanti” ecc.).

 

11.5. Il clima della Mongolia.

Giovanni da Pian del Carpine continua a sorprenderci con la sua descrizione del clima della Mongolia, che ci lascia l’impressione di uno che non abbia mai davvero lascito la sua abitazione. L’editore del testo di Giovanni da Pian del Carpine era del tutto ignorante del clima del paese che si suppone descrivesse come testimone oculare.

Un esempio eccellente è il seguente. Giovanni da Pian del Carpine racconta la storia seguente, molto istruttiva: “Avvengono spesso pesanti grandinate… Quando siamo stati a visitare la corte, ci fu una tempesta di grandine così feroce che la grandine sciolta fece annegare 160 persone proprio qui, presso la corte, come apprendemmo da fonti degne di fede, e molte case e proprietà vennero spazzate via” ([656], pag. 32). Qualcuno riesce a immaginare tempeste di grandine che causino alluvioni, con persone affogate dallo scioglimento della grandine, e con la distruzione di case e proprietà, nel pietroso e secco deserto del Gobi?

Il frammento diventa invece realistico una volta che togliamo il velo dell’informazione distorta dagli editori dei secoli XVII e XVIII. Si può capire che il testo riferiva di un’alluvione causata dallo straripamento di un fiume. Infatti, simili catastrofi spesso spazzano via intere città e villaggi, comportando numerosi morti. Ogni cosa diventa chiara.

 

11.6. Il cimitero imperiale mongolo.

Successivamente, Giovanni da Pian del Carpine ci dice quanto segue a proposito dei Mongoli: “La loro terra ha due cimiteri. Uno di questi è quello degli imperatori, i principi e la nobiltà; sono portati là dovunque muoiano… e seppelliti vicino a grandi quantità di oro e argento.” ([656], pag. 39). Ci piacerebbe molto chiedere agli archeologi sulla posizione di questo cimitero “Mongolo”. Potrebbe forse trovarsi in Mongolia o nel Deserto del Gobi? Purtroppo, gli archeologi non ce lo dicono. Non c’è nulla che ricordi lontanamente un cimitero imperiale con cumuli di oro e argento, da nessuna parte nel deserto del Gobi... La nostra ricostruzione invece ci permette di indicare immediatamente la posizione del cimitero (vedi Cronologia5 per maggiori dettagli). È piuttosto famoso: la Valle dei Morti e Luxor in Egitto. È qui che troviamo gigantesche piramidi e centinaia di tombe regali, alcune delle quali sono realmente riempite di oro, argento e gemme preziose. Ricordiamo la lussuosa tomba del Faraone Tutankhamen, per esempio e l’enorme quantità di oro usato nella sua costruzione; nessun pezzo d’argento da nessuna parte, solo oro e pietre preziose. Secondo la nostra ricostruzione, è qui che il Grande Impero “Mongolo” ha seppellito i suoi re, alcuni degli ufficiali di grado più alto, e probabilmente alcuni dei parenti. I cadaveri venivano mummificati prima del loro ultimo viaggio verso l’Egitto.

 

11.7. Il secondo cimitero dei mongoli.

Il secondo cimitero Mongolo è anch’esso di grande interesse. Giovanni da Pian del Carpine riporta quanto segue: “Il secondo cimitero è l’ultimo riposo delle moltitudini uccise in Ungheria.” ([656], pag. 39).

Quindi, ci viene detto che le vaste steppe della Mongolia nascondono un gigantesco cimitero dove moltitudini di guerrieri mongoli sono stati seppelliti, dopo essere morti in Ungheria. Diamo un’occhiata alla cartina, per fare una stima della distanza tra l’Ungheria e l'odierna Mongolia. C’è un bel po’ di strada, oltre cinquemila chilometri in linea d’aria, e molti di più viaggiando sulle strade. Perciò, ci viene fatto credere che i corpi di migliaia di soldati mongoli, morti in Ungheria, siano stati caricati su carretti e spediti nelle distanti steppe della Mongolia, attraverso fiumi, foreste e colline. Quanti mesi ci sono voluti? Perché trasportare i corpi così lontano e cosa rimaneva di questi corpi dopo un viaggio del genere?

Crediamo che questo quadro scaligeriano sia completamente inconcepibile. I corpi dei morti possono solo aver viaggiato per un breve percorso, che significa che la Terra dei Padri dei “Mongoli”, ossia la terra dei Tartari, confinava con l’Ungheria, il che è assolutamente strano per la storia di Scaligero. Tuttavia, corrisponde perfettamente alla nostra ricostruzione, in quanto il Grande Impero “Mongolo” si identifica con la Russia, ossia l'Orda e confina con l’Ungheria. È vero anche che ci sono migliaia di tumuli cimiteriali in Ucraina, per esempio, e circa tremila nella regione di Smolensk ([566], pag. 151). Sono i cosiddetti “Tumuli Cimiteriali di Gnezdovo”, che si trovano a Sud di Smolensk e sono concentrati intorno al villaggio di Gnezdovo ([797], pag. 314). I tumuli cimiteriali di Gnezdovo costituiscono “il più grande gruppo di tumuli cimiteriali nelle terre slave. Se ne contano fino a tremila oggi” ([566], pag. 151). Questi tumuli sono molto probabilmente le tombe dei guerrieri del Grande Impero “Mongolo” uccisi in Ungheria.

 

11.8. I cannoni dell’esercito del Prete Gianni.

Giovanni da Pian del Carpine o, piuttosto, l’editore del XVII-XVIII secolo che lo impersona, ci vuole far prendere per vera la seguente assurda storia. In una delle battaglie, il Prete Gianni “aveva costruito immagini di persone in rame e le aveva montate a cavallo, accendendo un fuoco al loro interno; dietro le immagini di rame c’erano dei cavalieri che portavano dei mantici… Quando l’esercito arrivava al campo di battaglia, questi cavalli venivano lanciati in corsa affiancati. Quando si trovavano davanti le formazioni nemiche, i cavalieri che stavano dietro mettevano qualcosa nel fuoco [sic! - Aut.] che bruciava nelle suddette effigi di rame, e poi cominciavano a soffiare pesantemente con i mantici. Così invocavano il Fuoco Greco, che inceneriva persone e cavalli e l’aria diventava nera per il fumo” ([656], pag. 46).

Siamo dell’opinione che il testo originale contenesse una descrizione dei cannoni in rame delle truppe “Mongole”, ossia l’esercito del Grande Impero. Difatti, spesso i cannoni venivano decorati con figure di animali e persone, vedi Cronologia6, Capitolo 4: 16. La strana e favolosa descrizione che ci ritroviamo, dipende dall’invenzione dell'editore del XVII-XVIII secolo, il cui reale obbiettivo era quello di cancellare tutti i riferimenti agli avvenimenti tardo medievali in Russia, ossia nell’Orda.

Vedi Cronologia5 per maggiori notizie sul Prete Gianni.

 

11.9. Il linguaggio dei mongoli.

Giovanni da Pian del Carpine racconta che quando ha consegnato un’epistola papale all’imperatore dei “Mongoli”, il documento doveva essere tradotto. In che lingua fu tradotto? Secondo Giovanni da Pian del Carpine, “portammo l’epistola allo Zar e chiedemmo qualcuno per tradurla… insieme a loro traducemmo parola per parola in russo, saraceno, tartaro; questa traduzione fu presentata a Batu che la lesse con molta attenzione prendendo nota” ([656], pag. 73).

In un’altra occasione, già alla corte dell’imperatore Mongolo, a Giovanni da Pian del Carpine e ai suoi compagni, fu fatta la seguente domanda: “Sua Santità il Papa, ha traduttori che comprendano il linguaggio scritto dei russi, dei saraceni, dei tartari?” ([656], pag. 80). Giovanni da Pian del Carpine rispose negativamente e così la risposta dei Mongoli fu tradotta in una lingua che il Papa potesse capire. Da questo si capisce che la missiva originale al Papa era nel “linguaggio scritto dei russi, dei saraceni, dei tartari”. Questo potrebbe implicare che i tre linguaggi erano realmente un solo linguaggio? Ricordiamo l’affermazione iniziale di Giovanni da Pian del Carpine, per cui i Tartari erano il nome Europeo Occidentale dei Mongoli, ovvero i “Grandi”. Questo spiega perché lui qui si riferisca specificatamente alla lingua tartara. Dobbiamo sottolineare come Giovanni da Pian del Carpine non dica una solo parola sulla lingua “mongola”; tutti i khan mongoli sono alfabetizzati e capaci di leggere il russo; in più, non sanno nulla di un presunto linguaggio “mongolo”, e comunque Giovanni da Pian del Carpine non lo menziona mai durante il suo viaggio in Mongolia.

 

11.10. La vera natura delle tende mongole, che si presume siano fatte di feltro rosso e bianco.

Secondo Giovanni da Pian del Carpine, i mongoli vivono nelle tende. Questo è ovvio per tutti oggi. Dopo tutto i Mongoli sono dei selvaggi ignoranti che non hanno mai padroneggiato l’arte dell’architettura e il cui modo di vivere era estremamente primitivo. Tuttavia, si scopre che le tende “mongole” erano molto particolari. Per esempio, una di queste era fatta di feltro bianco e poteva ospitare nientemeno che “oltre duemila persone” ([656], 76). Una strana tenda, no? La misura è vicina a quella di uno stadio.


Figura 14.53.
Incisione raffigurante la yurta, o tenda, appartenente al Gran Khan della “Mongolia”. Simili assurdità vennero disegnate fin dal XVII-XVIII secolo, cioè da quando la vera storia del XIV-XVI secolo venne dimenticata.
Ad esempio, il fatto che il Grande = Zar “mongolo”, o Khan, avesse vissuto in un palazzo di pietra bianca e pregato in enormi chiese dalle cupole dorate. Né i palazzi, né le cattedrali avevano le ruote.
Tratto da [1264], Volume 1, illustrazione di copertina.

Le cerimonie inaugurali degli Imperatori Mongoli si tenevano anch’esse nelle tende, l’unica costruzione residenziale conosciuta dai mongoli. Giovanni da Pian del Carpine era presente a una di queste cerimonie. Questo è quanto ci racconta: “Un’altra tenda che loro chiamavano la Tenda d’Oro, fu preparata per lui in una magnifica valle tra le colline, vicino a un qualche fiume. È qui che Kouiouk si presume sia stato incoronato nel giorno dell’Assunzione di Nostra Signora... Questa tenda era piantata su pali coperti con fogli d’oro, inchiodati ai pali con chiodi d’oro” ([656], pagg. 77-78).

Comunque, non tutte le “tende” mongole erano fatte di feltro bianco; alcune erano anche rosse. Questo è ciò che riporta Giovanni da Pian del Carpine: “Siamo arrivati in un altro posto, dove si trovava una magnifica tenda di feltro rosso fuoco” ([656], pag. 79). E ancora: “Le tre tende di cui abbiamo parlato erano enormi; altre tende di feltro bianco, molto grandi e magnifiche, appartenevano a sua moglie” ([656], pag. 79).

Cosa diceva il testo originale, prima di essere modificato pesantemente nel XVII-XVIII secolo?

Per quanto riguarda l’inaugurazione in una tenda di feltro bianco su pali dorati di legno e addirittura nel giorno dell’Assunzione, la situazione è perfettamente chiara. Una comparazione con la versione consensuale della storia Russa, rivela che la cerimonia di inaugurazione come menzionata sopra, si teneva nella Cattedrale della Dormizione in pietra bianca; il suo nome si traduce anche con “Cattedrale dell’Assunzione”, che è dove gli zar russi venivano insediati. La cupola della costruzione era realmente coperta di fogli d’oro. Giovanni da Pian del Carpine non comprendeva il principio della loro costruzione; Non si vedevano chiodi da nessuna parte e quindi immaginò che i chiodi stessi fossero d’oro. L’errore è perfettamente comprensibile; veniva da un paese dove non c’erano cupole dorate, per cui non conosceva il principio di costruzione delle stesse e rimaneva sorpreso dal non vedere chiodi.

Facciamo anche la seguente considerazione relativamente alla parola “tenda”, “shatyor”. Per esempio, la parola francese per “castello” è “chateau”; si legge sciatò, che suona molto simile alla parola “shatyor”; inoltre, la parola turca “chadyr”, si traduce in modo simile ([955]. Volume 2, pag. 405). Perciò, quando sentiamo Giovanni da Pian del Carpine parlare di “tende”, l’ultima cosa a cui pensare è una fragile costruzione di rami e stoffa, o di pelle e feltro. Crediamo che l’autore si riferisse in realtà al castello, o palazzo, degli zar russi, ossia i khan dell’Orda, fatto di pietra bianca. Erano chiamati in modo reverente Imperatori, dagli europei occidentali. Governavano su tutto il Grande Impero “Mongolo” e non solo su alcune provincie come Francia, Germania o Inghilterra. I regnanti locali avevano il più modesto titolo di re, duchi e così via; comunque c’era un solo Impero e un solo Imperatore, un autocrate.

Torniamo alla descrizione delle tende mongole e verifichiamo i riferimenti nel testo di Giovanni da Pian del Carpine. In realtà, l'autore descrive costruzioni in pietra. Ci sono diverse ragioni. Una spiegazione possibile è che l’editore del XVII-XVIII secolo cercasse di enfatizzare la natura primitiva dei selvaggi del Lontano Oriente. Un’altra possibilità è che ci sia stata una trasformazione della parola Russa per “feltro” (“voylok”), che suona in modo simile alla parola “blocco”, che potrebbe essere stata usata da Giovanni da Pian del Carpine per riferirsi sia ai mattoni rossi, che ai blocchi di pietra bianca. Così, gli editori del XVII-XVIII secolo trasformarono i palazzi di pietra bianca e i palazzi di mattoni rossi, in tende di feltro bianco e rosso, svolazzanti al vento e tuttavia capaci di accogliere duemila persone ([656], pag. 76). Bisogna anche ricordare che la parola “palatka” e “palata”, rispettivamente “tenda” e “camera”, e le parole “palace”, “palacio”, “palazzo” e “palais”, che ancora esistono in inglese, italiano, spagnolo e francese, significano la stessa cosa. La parola in questione potrebbe derivare da “palata”, che è come venivano chiamate le stanze degli zar russi.

La vera storia del XIV-XVI secolo venne cancellata dalla memoria umana nel XVII-XVIII secolo. Come risultato, le gigantesche cattedrali “mongole” e i palazzi con le cupole dorate di Mosca e altrove, nei documenti furono trasferite artificialmente in Estremo Oriente, diventando le primitive e polverose tende dei khan, aperte a ogni vento. Per esempio, c’è un’incisione fantasiosa, che presumibilmente descrive la tenda del khan mongolo su ruote, guidata da una mandria di tori (vedi fig. 14.53). Questo sì che si chiama comfort e lusso!

 

11.11. Il trono dell’Imperatore mongolo.


Figura 14.54.
Il trono attribuito a Ivan IV "Il Terribile".
È conservato nell'Armeria del Cremlino di Mosca.
A proposito, questo trono "era attribuito a Ivan III"
([96], pagina 56, ill. 35).
Tutto è perfettamente chiaro, secondo la nostra ricostruzione.
Ivan III è per lo più una copia fantasma di Ivan IV,
per cui gli storici confondono regolarmente
le identità dei "due Ivan".
Tratto da [187], pagina 365.

Giovanni da Pian del Carpine riporta la costruzione di un “pedana alta di legno [presumibilmente, legno importato, poiché sarebbe dovuto arrivare da molto lontano fino al Deserto del Gobi - Aut.], sul quale l'imperatore stava seduto sul trono. Era fatto di avorio, magnificamente intagliato e adornato con oro, gemme e perle, se la memoria non cm inganna” ([656], pag. 79).

È davvero curioso che il trono “mongolo”, come pure il sigillo dell’imperatore “mongolo”, sia stato realizzato da Kozma, un artigiano Russo. Giovanni da Pian del Carpine parla di un russo chiamato Kozma, l'artigiano orafo preferito dall’imperatore… Kozma ci ha mostrato un altro trono, che aveva fatto per l’imperatore prima del suo insediamento, così come il sigillo imperiale, sempre fatto da lui, e ci ha tradotto il testo dell’iscrizione sul sigillo” ([656], pag. 80).

Non sappiamo se qualcuno abbia trovato, nel Deserto del Gobi, questo lussuoso trono realizzato da un artigiano russo. La risposta è certamente no, forse a causa di guerre, tempeste di sabbia, il passaggio di molti secoli ecc. Comunque, non c'è nessun trono nel Gobi.

Tuttavia, il trono di Ivan IV “il Terribile” esiste ancora oggi ed è in condizioni perfette. Si trova nell’Armeria Moscovita, nella camera reale (“tsarskiye khoromy”), ovvero nel Karakorum. È coperto completamente da incisioni in avorio, vedi la fig. 14.54. Il trono ci lascia l’impressione di essere fatto interamente in avorio. Non stiamo suggerendo assolutamente, che si tratti dello stesso trono dei “mongoli”, ovvero dei “Grandi”, che descrive Giovanni da Pian del Carpine. Può essere che si sia riferito a un trono simile; comunque sia ci offre la prova di un costume tipico russo, ossia dell’Orda, di utilizzare l’avorio per decorare i troni. Almeno uno di questi troni ha raggiunto la nostra epoca.

La contro-argomentazione degli storici sapienti ci è molta nota. Risale alla discendenza degli zar, che importarono i loro costumi dalle distanti terre orientali della Mongolia, tendendo, per mentalità servile, a emulare le abitudini dei loro conquistatori, i selvaggi e crudeli khan “Mongoli”, anche dopo che il soffocante gioco era stato eliminato. Comunque, la domanda di fondo rimane: com’è che non c’è traccia di quanto descritto da Giovanni da Pian del Carpine, nella zona del Deserto del Gobi, il presunto centro dell’Impero “Mongolo”, e invece c’è una gran quantità di queste tracce in Russia?

 

11.12. I sacerdoti al seguito dell’Imperatore mongolo.

Giovanni da Pian del Carpine usa spesso la parola “chierici” nel suo racconto. È curioso che in quasi tutti i casi vengano citati come i “chierici russi” o i “chierici cristiani” ([656], pag. 81).

Per cui, vediamo che l’Imperatore “Mongolo” era circondato da chierici cristiani. Questo contraddice totalmente la storia di Scaligero ed è assolutamente normale nella nostra narrazione. Il Gran Zar o Zar “Mongolo” (conosciuto anche come Khan) della Russia (ossia dell'Orda), ovviamente, era di fatto circondato da sacerdoti ortodossi russi.

Quando Giovanni da Pian del Carpine e i suoi compagni stavano lasciando la corte “Mongola”, la madre dell’Imperatore donò a ognuno di loro un cappotto in pelliccia di volpe. Giovanni da Pian del Carpine fa l’affermazione soddisfatta che la pelliccia era “perfetta da mettere all’esterno”. ([656], pag. 82).

Ancora una volta, è facile riconoscere i costumi della corte russa. Persino nel XVI secolo, gli inviati stranieri erano molto orgogliosi delle pellicce e degli altri indumenti cerimoniali che ricevevano come regali dallo Zar. Questi regali erano considerati segni speciali della simpatia regale. Per esempio, l’ambasciatore austriaco, il Barone Sigismund Von Herberstein, aveva un suo ritratto, dove era vestito con gli abiti russi, ricevuti in regalo dallo Zar ([161], pag. 283). Evidentemente, di questo si sentiva onorato (vedi figg. 14.55, 14.56, 14.57). Nelle figg. 14.58 e 14.59 riproduciamo un altro ritratto di Herberstein, che indossa le vesti regalategli dal “Sultano Turco” ([90], pag. 48).


Figura 14.55.
“L'inviato imperiale S. Herberstein indossa i lussuosi
abiti russi ricevuti in regalo da Basilio III.
Incisione del XVI secolo” ([550], pagina 82).

Figura 14.56.
Un'altra versione dell’immagine precedente
(Herberstein durante la sua prima visita a Mosca nel 1517),
con un'iscrizione diversa. Tratta da [161:1], p.161.

Figura 14.57.
"Herberstein con gli abiti di Mosca,
ricevuti da Basilio III nel 1526." [161:1], p.174.

Figura 14.58.
“Sigismund Herberstein indossa gli abiti
regalati dal sultano turco. 1559.
Xilografia dal libro intitolato "A Biography of Baron
Herberstein for his Grateful Descendants".
Vienna, 1560" ([90], pagina 48).

Figura 14.59
"Herberstein nella veste donatagli dal Sultano.
1541." [161:1], p.100.

 

11.13. L’adorazione “mongola” dell’effige di Genghis Khan.

Giovanni da Pian del Carpine racconta che i “mongoli” adoravano un’effige di Genghis-Khan ([656], pag. 36). Questo corrisponde alla nostra ricostruzione, che suggerisce che Gengis Khan fosse conosciuto anche come San Giorgio. I russi sono conosciuti come gli adoratori dell’icona di San Giorgio (conosciuto come “Il Vittorioso”). Ci sono molte versioni di monete con questa effige. Sia dell’icona, che delle immagini di Gengis-Khan, non esiste una singola traccia nella versione di Scaligero della Mongolia, come pure non si parla dei lussuosi troni d’avorio, delle tende di feltro, dei pali dorati ecc. Siamo dell’opinione che molte di queste cose esistano ancora oggi: è la localizzazione della capitale imperiale “mongola” che è sbagliata. Sta sul fiume Volga, molto lontano dal Deserto del Gobi, ed è conosciuta come Yaroslavl, ossia Novgorod la Grande, e poi si è trasferita a Mosca.

 

 

12. Gli appunti di un giannizzero medievale turco, scritti in cirillico.

 

Il libro che stiamo studiando è estremamente interessante. È intitolato “Note di un Giannizzero”. Scritto da Konstantin Mikhailovich da Ostrovitsa ([424]). Prima di tutto consideriamo la fine del libro. Si conclude con la seguente frase: “Questa cronaca fu inizialmente realizzata in lettere russe, nell’anno 1400 d.c.” ([424], pag. 1 16). La copia polacca suona così: “Tha Kroynikapyszana naprzod litera Ryska latha Narodzenia Bozego 1400" ([424], pag. 29).

Ovviamente, questa frase irrita molto i moderni commentatori, poiché “è noto a tutti” che le lettere russe non venivano usate fuori dalla Russia; si presume che tutti usassero l’alfabeto romano. Per cui, A. I. Rogov commenta così: “La frase stessa contiene un gran numero di errori, per quanto riguarda la corretta ortografia della lingua polacca. La natura di queste ‘lettere russe’ resta misteriosa. È possibile che l’autore implichi l’uso dell’alfabeto cirillico, forse il serbo” ([424], pag. 29). Non è affascinante? Un commentatore moderno che scrive in russo, trova misteriosa la natura delle lettere russe.

Si presume che il linguaggio dell’originale sia sconosciuto ([424], pag. 9). Tuttavia, poiché i commentatori moderni non possono ignorare completamente il riferimento alle “lettere russe”, considerano cautamente l’ipotesi che Konstantin avrebbe potuto forse scrivere “in serbo antico o slavo ecclesiastico; dopo tutto, i numerosi cristiani ortodossi che abitavano nel Gran Principato di Lituania, usavano un simile linguaggio come dialetto, e probabilmente erano capaci di capire il linguaggio delle ‘Note’... Bisogna essere ugualmente cauti, circa la prova che ci offre M. Malinovsky, che riferisce dell’esistenza di una copia in cirillico delle ‘Note’ nella Biblioteca Derechin o Sapeg, riferendo le parole di Jan Zakrevskiy, un insegnante di ginnasio di Vilna. Bisogna ricordare che gli alfabeti e le lingue venivano utilizzati in modo molto eclettico nel Gran Principato di Lituania, fino al limite di usare l’alfabeto arabo nei libri bielorussi [sic! - Aut.]” ([424], pag. 31).

È notevole il fatto che certi libri bielorussi fossero scritti in arabo e la nostra ricostruzione lo spiega bene.

Le “Note di un Giannizzero” furono tradotte in ceco con il titolo seguente, interessante per la nostra ricerca: “Questi fatti e cronache furono descritti e compilati da un serbo, o da un raz (Russo) dell’ex Regno di Raz, conosciuto anche come Regno Serbo, di nome Konstantin, figlio di Mikhail Konstantinovich da Ostrovitsa, portato alla corte del sultano turco Mehmed, dai turchi e dai giannizzeri. In turco era conosciuto come il Ketaya di Zvechay, mentre alla corte del re francese era conosciuto come Charles” ([424], pag. 30).

Gli storici sono confusi da molti dei fatti descritti nelle “Note”. Credono che il testo contenga un gran numero di contraddizioni. Da una parte, Konstantin odia i turchi; dall’altra, spesso li descrive favorevolmente. E inoltre sembra essere un cristiano (vedi [424], pag. 14). “Il libro [Note di un Giannizzero - Aut.] non dice una parola sulla conversione dell’autore all’Islam. Al contrario, Konstantin enfatizza la forza della sua fede cristiana. Ovviamente, questo raggiunge il massimo nell’introduzione e nel quarto capitolo delle ‘Note’” ([424], pag. 15).

E ancora, Konstantin ha grande familiarità con l’Islam, per esperienza personale e non riferita da qualcuno. I moderni commentatori fanno la seguente confusa rimostranza: “Avrebbe lui potuto visitare le moschee così liberamente senza essere egli stesso musulmano? In più, Konstantin racconta di avere conoscenze di prima mano dei riti musulmani, come la danza dei dervisci, per esempio, che normalmente proibiscono l’accesso a quelli che non sono del loro credo e addirittura ai musulmani che non sono iniziati al culto dei dervisci. Persino i dervisci ‘rinati’ non potevano assistere. Infine, è impossibile immaginare che il sultano mettesse un cristiano a capo della guarnigione in una fortezza importante, Zvechay in Bosnia, facendolo comandante di cinquanta giannizzeri e trenta soldati regolari turchi” ([424], pag. 15).

Ciò che sembra strano dal punto di vista di Scaligero, diventa ovvio e persino inevitabile nel quadro della nostra ricostruzione. Le discrepanze tra Cristianità e Islam non erano così grandi nell’epoca descritta dall’autore, come si crede oggi; lo scisma diventerà profondo solo più tardi.

Le Note di un Giannizzero contraddicono molto spesso la storia consensuale di Scaligero. I moderni commentatori sono costretti a segnalare le contraddizioni e naturalmente non le interpretano a favore di Konstantin. Viene accusato di fare errori, di essere confuso e “ignorante della vera storia”. Molti di questi passaggi sono citati più avanti.

“L’autore incolla diversi personaggi in uno, Murad II (che è falsamente chiamato Murad III), come il Sultano Solimano, Musa e Maometto I (vedi Capitolo XIX, esempio 1). Questo spiega i numerosi errori nelle biografie dei sultani turchi, come anche dei despoti e sovrani di Serbia e Bosnia, confondendo il sultano Murad con Orkhan (Capitolo XIII), chiamando Urosh I il primo re dei serbi, invece di Stefano il Primo Incoronato (Capitolo XV) ... Questa è la stessa ragione per cui l’autore riesce a confondere la data di fondazione di una città, per la data di costruzione delle fortificazioni (Capitolo XVII, commento 7). C’è anche un certo numero di abbagli geografici scandalosi, come quando afferma che il fiume Eufrate si riversa nel Mar Nero ((Capitolo XXXII)” ([424], pag. 26).

Tuttavia, vediamo che il primo re russo è stato Urosh, cioè, “un Rosh” ossia “un Russo”. Questo è perfettamente naturale dal nostro punto di vista.

Per quanto riguarda lo “scandaloso” riversarsi dell’Eufrate nel Mar Nero, basta dire che è scandaloso solo dal punto di vista Scaligeriano. Bisogna ricordare che Eufrate è l’antico nome di Prut, un tributario del Danubio che si riversa nel Mar Nero. I suoni F e P erano spesso soggetti a flessione e così Prut ed Eufrate possono essere due diverse versioni dello stesso nome.

 

 

13. La cripta dei Godunov nel Monastero Troitse-Sergiev. Il Monastero Ipatyevskiy a Kostroma.

 

La cripta dei Godunov si trova nella città di Zagorsk, conosciuta anche come Sergiev Posad. Comprende quattro tombe (vedi fig. 14.60); la cripta è piuttosto modesta. Si presume che lo stesso Boris Godunov sia seppellito qui. Nel 1997, una guida ci disse che i sarcofagi erano inizialmente coperti da lapidi che stavano per terra, con i sarcofagi sotto. Ai primi del XVIII secolo, questo luogo di sepoltura fu afflitto dallo stesso disastro che colpì le tombe degli altri zar russi nella Cattedrale dell'Arcangelo del Cremlino di Mosca, ossia, il sito di sepoltura fu sottratto alla vista da un massiccio parallelepipedo di mattoni. Si suppone che le quattro pietre tombali siano state rimosse e che adesso facciano parte della nuova parete posteriore che sale verticalmente. Oggi si può ancora vedere la parte superiore di quattro piccolissime pietre tombali; la parte inferiore è sotto il suolo e perciò gli epitaffi sono illeggibili (vedi figg. 14.61, 14.62 e 14.63). Comunque sia, gli epitaffi saranno verosimilmente danneggiati; inoltre le pietre tombali sono molto piccole, niente che ricordi un massiccio coperchio di sarcofago. Cosa c’era scritto sull’autentico coperchio dei sarcofagi, che presumibilmente sono stati seppelliti sotto la costruzione romanoviana? Saranno ancora intatti?


Figura 14.60
Il sepolcro che è stato dichiarato l'ultimo luogo di riposo della famiglia Godunov.
Il monastero di Troitse-Sergiyev, nella cittadina di Sergiyev Posad (Zagorsk). Tratto da [304], volume 3, pagina 248.

Questa sepoltura è piuttosto bizzarra da diversi punti di vista. Oggi la “Cripta dei Godunov” si trova fuori dalla Cattedrale della Dormizione, a una distanza considerevole dalle mura della Cattedrale. La guida ci ha spiegato che inizialmente la cripta era parte del suolo della cattedrale e “misteriosamente finì” lontano dalla stessa dopo la supposta ricostruzione della Cattedrale della Dormizione. I nostri oppositori possono provare ad accusare la guida di essersi sbagliata. Questo è possibile, ma improbabile poiché le guide, in posti come il monastero Troitse-Sergiyev, sono di regola degli specialisti qualificati. Non siamo riusciti a verificare l’informazione con nessuna fonte scritta.

Questo implica che la cattedrale si sia “contratta” o “spostata”. Inoltre, il piano terra della cattedrale Ouspenskiy si trova notevolmente più in alto della “cripta dei Godunov”. Per entrar nella cattedrale oggi, bisogna salire uno scalone piuttosto lungo. Come può essere successo che la “Cripta dei Godunov”, situata inizialmente al piano terra della Cattedrale, possa essere affondata di alcuni metri e comunque sia rimasta sopra il terreno?


Figura 14.60a.
La tomba dei Godunov nel 2012. Foto scattata da T. N. Fomenko.

Figura 14.60b.
Le quattro lapidi incastonate nella "tomba dei Godunov". Foto del 2012.

Figura 14.61.
Le prime due lapidi del presunto sepolcro dei Godunov.
Fotografia scattata nel 1997.

Figura 14.62.
La terza lapide del presunto sepolcro dei
Godunov. Fotografia scattata nel 1997.

 

Siamo dell’opinione che tutte queste siano fantasiose interpretazioni del XVIII secolo, quando i Romanov rimossero le tracce di qualche losca attività intorno alla cripta dei Godunov. La nostra ipotesi è semplice: sicuramente la cattedrale non si è ridotta o spostata; è nelle sue condizioni iniziali, a parte alcune modifiche secondarie. Per quanto riguarda la vera cripta che si trovava all’interno della cattedrale e che apparteneva ai Godunov o a qualcun altro, è stata evidentemente distrutta dai Romanov o coperta da un muro, cosicché fosse nascosta alla vista. Quindi, fu costruito un simulacro, “la Cripta dei Godunov”, su un pezzo di terra vicino, non al livello del piano terra della cattedrale a causa dell'irregolarità del terreno. Può darsi che lì ci sia pure seppellito qualcuno, per far sembrare “reale” la cripta, cosicché, se qualche ricercatore vorrà intraprendere delle ricerche, certamente troverà “le vere ossa dei Godunov”.


Figura 14.63.

La quarta lapide del presunto sepolcro dei Godunov.
Fotografia scattata nel 1997.

Figura 14.63a.
Iscrizione su una lapide di epoca dei Godunov: le sue condizioni sono davvero
pessime. La Cattedrale Trotskij del Monastero Ipatyevskiy a Kostroma.
Fotografia scattata dagli autori nell'agosto 2001.

Figura 14.63b.
Iscrizione semi obliterata su una lapide di epoca godunoviana.
La Cattedrale Trotskij del Monastero Ipatyevskiy a Kostroma.
Fotografia scattata dagli autori nell'agosto 2001.

Figura 14.63c.
Lapide dell'epoca godunoviana. Senza opere d'arte;
nemmeno una scritta è sopravvissuta.
La Cattedrale Trotskij del Monastero Ipatyevskiy a Kostroma.
Fotografia scattata dagli autori nell'agosto 2001.

Figura 14.63d.
Sarcofago antropomorfo in pietra di epoca godunoviana.
La Cattedrale Trotskij del Monastero Ipatyevskiy a Kostroma.
Questi sarcofagi somigliano molto a quelli scoperti in Egitto.
Fotografia scattata dagli autori nell'agosto 2001.

 

Nell’agosto 2001 A. T. Fomenko e T. N. Fomenko visitarono il monastero Ipatyevskiy di Kostroma. Secondo la versione ufficiale raccontata dalla guida, il monastero era appartenuto inizialmente ai Godunov, e i Romanov ne entrarono in possesso solo dopo il Periodo dei Torbidi, quando il tentativo di usurpazione era ormai stato coronato dal successo, rendendolo il loro proprio luogo sacro dinastico. Ed è anche questa la ragione per la costruzione del complesso memoriale disegnato per commemorare il 300mo anno della dinastia dei Romanov, completato con le 18 immagini in bronzo degli Zar che hanno fatto parte della dinastia. Questo memoriale non è mai stato eretto, sebbene siano state realizzate un gran numero di prove di fusione. Molti rappresentanti dei Godunov sono stati seppelliti nel Monastero Ipatyevskiy: sedici maschi; in più, qui furono seppellite anche le donne. Tuttavia, le guide moderne ci dicono che nel XVII secolo la cattedrale principale del Monastero Ipatyevskiy “esplose improvvisamente”; si presume che nelle fondamente ci fosse seppellita anche della polvere da sparo e che la gigantesca cattedrale sia esplosa per la criminale negligenza di qualcuno. I Romanov hanno eretto sullo stesso sito una nuova cattedrale in segno di deferenza. Questa è la versione ufficiale che le guide raccontano ai visitatori, anche cercando di far passare l’idea che i Godunov stessi siano da ritenere responsabili per aver lasciato la polvere da sparo nel sotterraneo. L’esplosione che distrusse la cattedrale molti decenni dopo, sotto i Romanov, dev’essere senz’altro stata accidentale. In generale si cerca di evitare che i visitatori facciano troppi sforzi per capire la verità ... è passato così tanto tempo.

Oggi sono rimaste meno di una dozzina di tombe dell'epoca dei Godunov nel monastero Ipatyevskiy. Alcune non sono attribuite a nessuno in particolare, poiché gli epitaffi delle pietre tombali rotte sono danneggiati e in molti casi oltre ogni leggibilità (vedi figg. 14.63a, 14.63b e 14.63c). È interessante che uno dei sarcofagi in pietra sia antropomorfo, con la forma di un corpo umano (vedi fig. 14.63d), la stessa forma usata in Egitto. Tuttavia, non ci sono iscrizioni sul sarcofago, anche il coperchio è mancante.

Questo fatto collima perfettamente con la serie di altre “stranezze” che accompagnano l’intera storia della “restaurazione” romanoviana e i “lavori di rinnovamento” fatti sulle antiche cattedrali russe nel XVII secolo. In precedenza, nel Capitolo 14:5 di Cronologia4, abbiamo ricordato le chiese moscovite completamente sfigurate dai Romanov; questa devastazione non risparmiò nemmeno le cattedrali del Cremlino di Mosca. Come possiamo vedere, un simile processo ha avuto luogo in altre città russe. Alcune delle cattedrali “mongole” che risalgono all’epoca dell’Orda, furono fatte saltare in aria, si suppone accidentalmente. Venivano costruite delle nuove cattedrali sui medesimi siti, si dice per emulare i predecessori. La consapevolezza che i Romanov abbiano compiuto una distruzione su larga scala e una campagna di falsificazione, rimpiazzando la storia del Grande Impero “Mongolo” con la falsificazione prodotta da Miller e Scaligero, è oggi solo agli albori. A quanto sembra, per poter realizzare la “storia corretta”, necessitavano prima di tutto di barilotti di polvere da sparo. Un simile disastro accadde anche sui resti degli autentici reperti dell’epoca dell’Orda, negli anni trenta del novecento (il periodo in cui gli storici sapienti usavano la dinamite).

A proposito, è molto spettacolare il modo in cui l’esplosione della cattedrale dei Godunov è stata riportata dal libro ufficiale del museo della “Cripta dei Boiardi Godunov nel monastero Ipatyevskiy di Kostroma”, che nell'agosto del 2001 era appeso alla parete della cripta. Diceva così: “Nel 1650-1652 la Cattedrale Trotskij fu ricostruita ancora più grande”. La distruzione con l’esplosivo si è trasformata in una “ricostruzione”.

Possiamo percepire nuovamente il solito limite temporale che abbiamo già incontrato: l’epoca del XVII secolo che separa l’epoca romanoviana dalla storia antica della Russia e dell’Orda. È molto difficile penetrare la barriera del XVII secolo, poiché sono sopravvissuti solo pochi reperti archeologici risalenti al XVI secolo e anche prima. Le antiche cattedrali imperiali e le costruzioni delle precedenti colonie occidentali dell'Impero. sono state in gran parte distrutte. Tuttavia, i riformatori che arrivarono al potere nel XVII-XVIII secolo nell’Europa Occidentale, decisero di mantenere l’antico aspetto dei templi “Mongoli”, semplicemente dichiarando che erano antichissimi e fatti da loro, vedi Cronologia4, Capitolo 14:6. Oggi, i visitatori dall’estero si lamentano per la mancanza di artefatti storici in Russia: non ci deve essere mai stato niente di monumentale qui, a parte l’illuminata e antica Europa.